Eccoci qua alla seconda puntata dell'Episodio 0: Frammenti dalla resistenza. Qualche giorno, con il primo episodio, fa ci siamo affidati ad un vecchio sopravvissuto, dalla pellaccia dura come il cuoio, ed alle sue considerazioni, che forse ci hanno lasciato con più domande che risposte. Questo è un altro frammento della storia...che speriamo sia lunga e vi appassioni ogni giorno di più.
Mantra.
Apro gli occhi. Metto a fuoco questo schifo. Intorno a me il buio, rotto da una lama di luce che penetra dalla pesante tenda, e puzza di animale, di polvere e di legno caldo. Mi asciugo il sudore dalla fronte, sembra di stare in un forno. Sento le lenzuola umide del mio sudore. Mi metto a sedere, i piedi toccano le assi del pavimento di legno, macchiato dal guano dei piccioni. Per terra è ruvido, come se non venisse spazzato da secoli. E penso, col cervello inerte come pietra, che probabilmente è proprio così.
Secoli. Sembrano passati secoli, e invece sono solo un paio d'anni che arranco, che impegno ogni fibra del mio essere a costringermi a sopravvivere. Come ogni mattina i ricordi sembrano affiorare poco a poco, come se il mio cervello si fosse prodotto in un meccanismo di autodifesa, per evitare di essere sopraffatto dalla realtà.Registro con calma le informazioni che mi vengono fornite dall'ambiente circostante, sebbene sappia di essere al sicuro. La via d'uscita, gli oggetti nella stanza. Il mio zaino appoggiato alla sedia. Il mio machete. Willy.
Il mio machete ha un nome, e si chiama Willy. Ha un nome perché chi ti salva la vita è un amico, e gli amici meritano un nome. Così il mio machete ha un nome. Lo accarezzo, con affetto, come tutte le mattine. Scosto la tenda dalla finestra, e il sole mi acceca per qualche istante: strizzo gli occhi che si abituano alla luce e guardo la stazione ferroviaria stendersi sotto di me. Dall'alto della cabina di controllo si vede la desolazione, e sulla destra il montacarichi a contrappeso manuale che ieri mi ha portato in salvo. E poi li sento, i loro lamenti odiosi. L'odore di putrefazione che emanano.
Oggi non tira una bava di vento, il caldo sembra essere insopportabile nonostante siano solo le dieci del mattino, e questo non aiuta certamente il tanfo. Stupida carne morta, mi hanno seguito fino a qui. Non fosse stato per il vecchio ed il suo intervento provvidenziale mi avrebbero raggiunto. Non riposano loro, non si stancano mai. Non dormono. Dietro di me sento la porta aprirsi, la voce del vecchio che mi invita a mangiare qualcosa di la. Con un cenno gli dico che arrivo subito. Non ho ancora finito i miei piccoli riti mattutini, quei piccoli gesti che mi impediscono di perdere la ragione. E per ultimo scandisco nella mente poche parole, come un mantra:
Mantra.
Apro gli occhi. Metto a fuoco questo schifo. Intorno a me il buio, rotto da una lama di luce che penetra dalla pesante tenda, e puzza di animale, di polvere e di legno caldo. Mi asciugo il sudore dalla fronte, sembra di stare in un forno. Sento le lenzuola umide del mio sudore. Mi metto a sedere, i piedi toccano le assi del pavimento di legno, macchiato dal guano dei piccioni. Per terra è ruvido, come se non venisse spazzato da secoli. E penso, col cervello inerte come pietra, che probabilmente è proprio così.
Secoli. Sembrano passati secoli, e invece sono solo un paio d'anni che arranco, che impegno ogni fibra del mio essere a costringermi a sopravvivere. Come ogni mattina i ricordi sembrano affiorare poco a poco, come se il mio cervello si fosse prodotto in un meccanismo di autodifesa, per evitare di essere sopraffatto dalla realtà.Registro con calma le informazioni che mi vengono fornite dall'ambiente circostante, sebbene sappia di essere al sicuro. La via d'uscita, gli oggetti nella stanza. Il mio zaino appoggiato alla sedia. Il mio machete. Willy.
Il mio machete ha un nome, e si chiama Willy. Ha un nome perché chi ti salva la vita è un amico, e gli amici meritano un nome. Così il mio machete ha un nome. Lo accarezzo, con affetto, come tutte le mattine. Scosto la tenda dalla finestra, e il sole mi acceca per qualche istante: strizzo gli occhi che si abituano alla luce e guardo la stazione ferroviaria stendersi sotto di me. Dall'alto della cabina di controllo si vede la desolazione, e sulla destra il montacarichi a contrappeso manuale che ieri mi ha portato in salvo. E poi li sento, i loro lamenti odiosi. L'odore di putrefazione che emanano.
Oggi non tira una bava di vento, il caldo sembra essere insopportabile nonostante siano solo le dieci del mattino, e questo non aiuta certamente il tanfo. Stupida carne morta, mi hanno seguito fino a qui. Non fosse stato per il vecchio ed il suo intervento provvidenziale mi avrebbero raggiunto. Non riposano loro, non si stancano mai. Non dormono. Dietro di me sento la porta aprirsi, la voce del vecchio che mi invita a mangiare qualcosa di la. Con un cenno gli dico che arrivo subito. Non ho ancora finito i miei piccoli riti mattutini, quei piccoli gesti che mi impediscono di perdere la ragione. E per ultimo scandisco nella mente poche parole, come un mantra:
"Il mio nome è Julian, e sono ancora vivo".