Parte oggi una nuova rubrica di ZKB nata dalla mente di Gianmaria Contro, autore del libro/saggio Zombie Walk. Continuate a leggere per conoscere la "Guerriglia Zombie" che porta alla contaminazione dei nostri amati morti viventi, in posizione borderline tra il nostro mondo e quello del mito e della fantasia!
0 – Tra apocalisse e rivoluzione
Se c’è un aspetto del Life-Style zombico che mi fa ribollire il sangue di gioia è il suo carattere anomico, anarchico, dichiaratamente eretico… per dirlo con una parola à la page: post-umano. Lo Zombie non solo travolge il mito nevrotico della performance produttiva e mette in ridicolo le illusioni del salutismo bio-nazi-fitness dietetico di quest’età senza futuro, ma spazza via l’intera idea di civiltà, quasi fosse un Ragazzo Selvaggio burroughsiano. Vive – se così si può dire – in una terra di nessuno, o meglio ha mutato l’intera Terra in uno spazio di Nessuno.
Che finalmente può tornare a essere di tutti.
In effetti c’è forse un solo carattere che possa essere attribuito universalmente a tutte le rappresentazioni cine-tele-fumettovideoludiche dello Zombie: lui/lei abbatte cancellate, sfonda porte, distrugge steccati e fortificazioni. Supera confini.
Questo, perché è una figura dell’immaginario, cioè la cosa più reale che esista. Ed è lì, nelle lande letteralmente sconfinate dell’immaginario che vorrei andare a cercarlo insieme a voi…
1 – Sulle Orme di Hellequin
Secondo le cronache, il genio letterario di Nikolàj Vasil’evič Gogol’ – autore non a caso di un celebre racconto mortovivente come Il Vij – si spense il 21 febbraio 1852 alle otto del mattino. Il grande letterato russo dipartì nel sonno, ma non senza aver pronunciato un’ultima enigmatica sentenza, “La scala, presto, la scala!”.
Una scala di sette gradini, realizzata in pasta di pane, è, secondo la testimonianza dell’antropologo vittoriano James Frazer, ciò che i contadini del distretto di Voronež fabbricavano e offrivano al defunto prima che questo fosse portato al camposanto, presumibilmente per facilitargli l’ascensione al cielo.
Di pane e non di legno, perché – come dovreste ben sapere – i morti hanno sempre fame e trafficano sempre col cibo. Nel mito greco Persefone non avrebbe dovuto mangiare il melograno di Ades e, in quello accadico, il dio Nergal avrebbe fatto meglio a non offendere la dea degli inferi Ereškigal proprio durante il banchetto degli dei… “La difficoltà consisteva nell’appurare se a mangiare fosse l’anima del morto o il suo corpo”, Ironizza Voltaire nel noto passaggio del Dictionnaire Philosophique, che volle dedicare ai non-defunti; una nota che – involontariamente immaginiamo – ci fornisce lo spunto per questo primo viaggio tra oltrevita e oltretomba.
The Evil Touch (da noi Il tocco del diavolo) era una serie televisiva di produzione australiana. Andò in onda per una sola stagione nella prima metà degli anni Settanta, presentata dalla star hollywoodiana Anthony Quayle. Non ne rimangono molte tracce, neppure nella Cloaca Totale della Rete che tutto conserva… Ebbene – vi confesso che si tratta di un remoto ricordo (per il quale non sono neppure riuscito a trovare una pezza d’appoggio) – credo proprio che in un episodio di quella serie il protagonista di turno fosse braccato da tre signori in tenuta da Blues Brothers (senza cappello e occhiali da sole), palesemente defunti, con gli occhi cerchiati di un nero spettrale… Erano cadaveri usciti materialmente dal loro feretro o si trattava di fantasmi?
“Era come il corpo di un uomo annegato da molto tempo, eppure si muoveva e aveva la forza di dieci uomini vivi; ma io lo tenevo con tutte le mie energie… Quella cosa era scivolosa, viscida, orribile… i suoi bianchi occhi morti sembravano fissarmi nella penombra; aveva addosso l’odore putrido dell’acqua marina stagnante…”. Ecco un bel morto vivente, solido, aggressivo, putrefatto e persino maleodorante. O no? La creatura in questione, di fatto esce direttamente dalle pagine de La cuccetta superiore, piccolo gioiello della Ghost Story britannica che fa bella mostra di sé in varie antologie. La storia di Crawford si svolge su una nave e sembra che in effetti sia una caratteristica degli spettri marinari quella di manifestarsi con una fastidiosa concretezza.
Secondo quanto riferisce lo studioso Giancarlo Costa nel suo Leggende e fantasmi del mare (2003), il revenant noto come LadyLips, per esempio, “è riconoscibile per la mancanza della mascella” è di un pallore cadaverico e indossa una divisa di foggia settecentesca, mentre un’altra entità – comparsa, pare, sulla nave scozzese Llanstephan Castle nell’inverno del 1938 – è caratterizzata da “un’espressione vuota e inconscia, ma al tempo stesso fredda e determinata”, indossa abiti coperti di muffa e si muove lentamente… cercando peraltro di buttare a mare le malcapitate passeggere in cui si imbatte.
A proposito di Ghost Story.
Il film firmato da John Irvin nel 1981 – dall’omonimo romanzo di Peter Straub (1979) – e giunto in Italia inutilmente tradotto in Storie di fantasmi – ci presenta una quanto mai affascinante Alice Krige trasfigurata nella forma di orripilante e marcescente cadavere omicida. È stato il semi-dimenticato artista del make up Carl Fullerton, con la complicità di un Rick Baker ancora trentunenne, a ridurla così, grazie a un’arte di lattice e coloranti che ancora non conosceva i fasti del digitale. Ma è stata soprattutto la convinzione, radicata nell’inconscio di noi tutti, che Eva – questo il nome del personaggio – sia defunta nella carne, e che il suo fantasma quella carne se la porti dietro tutta, concreta, orribilmente tangibile. Il morto vivente, il nostro Living Dead, sembra essere anche qui, dentro l’ambiguità di “spiriti” inquieti che possono violare le leggi della fisica e le forme della biologia e nel contempo le applicano pedissequamente, come se fossero capaci di mutare la propria densità a piacimento. Viene in mente un vecchio racconto di Mary Elisabeth Braddon (Il freddo abbraccio), dove un seducente e cinico studente viene perseguitato dalla presenza dell’ex-amante suicida. A un certo punto, il giovane scapestrato si sente stringere dalle braccia della morta e constata che “non è solo spettrale quell’abbraccio, perché è palpabile al tocco…”.
Da dove vengono questi pseudo-Zombie, queste creature ambigue e irrisolte, diafane ma capaci di ghermire, afferrare e, all’occasione, uccidere? Forse possiamo trovare una risposta, almeno abbozzata, in quei secoli lontani, che la nostra immaginazione confusa rappresenta sempre come inesauribili contenitori d’immagini macabre e stregonesche. Quei mille anni di storia, vita, guerra e cultura che siamo soliti chiamare “medioevo”.
“La fede nei vampiri si ricollega…”, scrive l’erudita Margot Rauch (Dracula e il mito dei vampiri, 2012), “…a diverse figure magiche (…), le streghe, i licantropi, gli zombi. Malgrado l’esistenza di punti di contatto, queste figure non vanno confuse con i vampiri. Nelle raffigurazioni della danza macabra, per esempio, i protagonisti sono scheletri che ballano e non morti-viventi”…Quest’ultima asserzione, per quanto lì per lì ci paia assolutamente sensata, non è in realtà altro che un falso ricordo. Chiunque abbia la pazienza di rivisitare la tradizione iconografica della Danse Macabre scoprirà infatti che gli “scheletri” in questione sono spesso corpi quasi completamente integri (I Morti di San Rocco, nei pressi di Como, o La Danse des Morts, in Alvernia, entrambi del XV secolo, giusto per ricordare un paio di reperti) o che altrettanto spesso, essi appaiono ricoperti di un sottile ma incontestabile strato di tessuti semi-marciti, come nelle celebri terracotte di Anton Sohn (XIX secolo)… I suddetti punti-di-contatto, a quanto pare, non sono innocui segnetti a matita su una mappa, ma faglie che connettono/delimitano placche tettoniche dell’immaginario. I protagonisti delle tetre ballate tardo-medievali non sono (non solo, per lo meno) semplici impalcature ossee, ma veri e propri “cadaveri deambulanti”. Walking (and Dancing) Dead.
Un passo indietro nel tempo, ed eccoci arrivati a destinazione.
L’Orda dei Morti è nata nella lunga Notte di George Romero, o seguendo l’Army of Darkness di Raimi? La risposta si direbbe negativa in entrambi i casi. Il Branco Apocalittico non ha preso forma sulla celluloide del cinema, ma nel midollo vivo delle credenze popolari. Siamo tra XI e XII secolo quando l’orecchio instancabile della Chiesa comincia a raccogliere racconti e testimonianze che parlano di torme, cortei, veri e propri eserciti di morti in marcia nelle campagne. L’Exercitus mortuorum dilaga in Francia come in Galles, in Spagna e Italia così come lungo il corso del Reno… Segue, del resto, il residuo di un’antica credenza germanica (a cui lo stesso Tacito nel suo De origine et situ germanorum aveva fatto cenno) venuta da noi sull’onda delle invasioni.
Se i defunti si manifestano talvolta come pellegrini ultramondani che hanno semplicemente perso la strada per il Paradiso, più di frequente assumono le sembianze ferine di demoniaci Cacciatori Selvaggi in cerca di viventi da rapire… La potente abbazia di Cluny ha già cercato (grossomodo tra il 1024 e il 1033) di fermare la loro avanzata, confinandola nel 2 di novembre, il giorno in cui ancora oggi la memoria di chi non c’è più viene onorata. Ma non è servito né servirà a nulla.
“Nella sua Storia ecclesiastica, scritta nel 1140” – ci informa lo storico Jean-Claude Schmitt – “Oderico Vitale riferisce con parecchi dettagli (…) l’apparizione dell’esercito dei morti chiamato per la prima volta familia Herlechini…”. La famiglia di Hellequin. Questo sinistro antenato del nostro Alecchino è in realtà una forma, una figura generica più che un personaggio (pare che il suo nome derivi dalla voce paleogermanica harjaleika, “membro della schiera”), ma non è mancato chi vi ha visto un improbabile Herle-King, un Re Herle dei Morti. In ogni caso, il sacerdote normanno Gualchelmo – che lo incontrò nel 1091 – lo descrisse come un gigante armato di mazza e accompagnato da una lunga corte di dannati infernali che cavalcavano nella selva, uomini, donne, nani deformi, demoni, pallidi e mori, perlopiù malvagi, ma, talvolta, solo in cerca di redenzione. “Il prete volle fermare uno dei cavalli, ma l’armatura gli bruciò la mano”, i morti erano solidi e reali dunque… E bisognava temerli. Hellequin era il vero signore dell’im¬maginario popolare, regnava nei luoghi solitari – che all’epoca erano la maggior parte del mondo – in attesa di sorprendere il viandante e portarlo con sé all’inferno. Non sappiamo se volesse anche mangiarlo, come fanno i nostri Zombie, ma è certo è che – lo scrisse il folklorista americano Rupert D. Jameson – anche “gli spettri sono sempre affamati”…
Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London):
il fantasma sempre più decomposto di Jack parla con l'amico mannaro
il fantasma sempre più decomposto di Jack parla con l'amico mannaro
GUERRIGLIA ZOMBIE
Incursioni senza scrupoli (né bussola) nel territorio dei morti.
0 – Tra apocalisse e rivoluzione
Se c’è un aspetto del Life-Style zombico che mi fa ribollire il sangue di gioia è il suo carattere anomico, anarchico, dichiaratamente eretico… per dirlo con una parola à la page: post-umano. Lo Zombie non solo travolge il mito nevrotico della performance produttiva e mette in ridicolo le illusioni del salutismo bio-nazi-fitness dietetico di quest’età senza futuro, ma spazza via l’intera idea di civiltà, quasi fosse un Ragazzo Selvaggio burroughsiano. Vive – se così si può dire – in una terra di nessuno, o meglio ha mutato l’intera Terra in uno spazio di Nessuno.
Che finalmente può tornare a essere di tutti.
In effetti c’è forse un solo carattere che possa essere attribuito universalmente a tutte le rappresentazioni cine-tele-fumettovideoludiche dello Zombie: lui/lei abbatte cancellate, sfonda porte, distrugge steccati e fortificazioni. Supera confini.
Questo, perché è una figura dell’immaginario, cioè la cosa più reale che esista. Ed è lì, nelle lande letteralmente sconfinate dell’immaginario che vorrei andare a cercarlo insieme a voi…
1 – Sulle Orme di Hellequin
Secondo le cronache, il genio letterario di Nikolàj Vasil’evič Gogol’ – autore non a caso di un celebre racconto mortovivente come Il Vij – si spense il 21 febbraio 1852 alle otto del mattino. Il grande letterato russo dipartì nel sonno, ma non senza aver pronunciato un’ultima enigmatica sentenza, “La scala, presto, la scala!”.
Una scala di sette gradini, realizzata in pasta di pane, è, secondo la testimonianza dell’antropologo vittoriano James Frazer, ciò che i contadini del distretto di Voronež fabbricavano e offrivano al defunto prima che questo fosse portato al camposanto, presumibilmente per facilitargli l’ascensione al cielo.
Di pane e non di legno, perché – come dovreste ben sapere – i morti hanno sempre fame e trafficano sempre col cibo. Nel mito greco Persefone non avrebbe dovuto mangiare il melograno di Ades e, in quello accadico, il dio Nergal avrebbe fatto meglio a non offendere la dea degli inferi Ereškigal proprio durante il banchetto degli dei… “La difficoltà consisteva nell’appurare se a mangiare fosse l’anima del morto o il suo corpo”, Ironizza Voltaire nel noto passaggio del Dictionnaire Philosophique, che volle dedicare ai non-defunti; una nota che – involontariamente immaginiamo – ci fornisce lo spunto per questo primo viaggio tra oltrevita e oltretomba.
Wilde Jagd: la caccia selvaggia
The Evil Touch (da noi Il tocco del diavolo) era una serie televisiva di produzione australiana. Andò in onda per una sola stagione nella prima metà degli anni Settanta, presentata dalla star hollywoodiana Anthony Quayle. Non ne rimangono molte tracce, neppure nella Cloaca Totale della Rete che tutto conserva… Ebbene – vi confesso che si tratta di un remoto ricordo (per il quale non sono neppure riuscito a trovare una pezza d’appoggio) – credo proprio che in un episodio di quella serie il protagonista di turno fosse braccato da tre signori in tenuta da Blues Brothers (senza cappello e occhiali da sole), palesemente defunti, con gli occhi cerchiati di un nero spettrale… Erano cadaveri usciti materialmente dal loro feretro o si trattava di fantasmi?
“Era come il corpo di un uomo annegato da molto tempo, eppure si muoveva e aveva la forza di dieci uomini vivi; ma io lo tenevo con tutte le mie energie… Quella cosa era scivolosa, viscida, orribile… i suoi bianchi occhi morti sembravano fissarmi nella penombra; aveva addosso l’odore putrido dell’acqua marina stagnante…”. Ecco un bel morto vivente, solido, aggressivo, putrefatto e persino maleodorante. O no? La creatura in questione, di fatto esce direttamente dalle pagine de La cuccetta superiore, piccolo gioiello della Ghost Story britannica che fa bella mostra di sé in varie antologie. La storia di Crawford si svolge su una nave e sembra che in effetti sia una caratteristica degli spettri marinari quella di manifestarsi con una fastidiosa concretezza.
Secondo quanto riferisce lo studioso Giancarlo Costa nel suo Leggende e fantasmi del mare (2003), il revenant noto come LadyLips, per esempio, “è riconoscibile per la mancanza della mascella” è di un pallore cadaverico e indossa una divisa di foggia settecentesca, mentre un’altra entità – comparsa, pare, sulla nave scozzese Llanstephan Castle nell’inverno del 1938 – è caratterizzata da “un’espressione vuota e inconscia, ma al tempo stesso fredda e determinata”, indossa abiti coperti di muffa e si muove lentamente… cercando peraltro di buttare a mare le malcapitate passeggere in cui si imbatte.
The Night Boat (illustrazioni di Les Edwards per il romanzo di Robert McCammon)
A proposito di Ghost Story.
Il film firmato da John Irvin nel 1981 – dall’omonimo romanzo di Peter Straub (1979) – e giunto in Italia inutilmente tradotto in Storie di fantasmi – ci presenta una quanto mai affascinante Alice Krige trasfigurata nella forma di orripilante e marcescente cadavere omicida. È stato il semi-dimenticato artista del make up Carl Fullerton, con la complicità di un Rick Baker ancora trentunenne, a ridurla così, grazie a un’arte di lattice e coloranti che ancora non conosceva i fasti del digitale. Ma è stata soprattutto la convinzione, radicata nell’inconscio di noi tutti, che Eva – questo il nome del personaggio – sia defunta nella carne, e che il suo fantasma quella carne se la porti dietro tutta, concreta, orribilmente tangibile. Il morto vivente, il nostro Living Dead, sembra essere anche qui, dentro l’ambiguità di “spiriti” inquieti che possono violare le leggi della fisica e le forme della biologia e nel contempo le applicano pedissequamente, come se fossero capaci di mutare la propria densità a piacimento. Viene in mente un vecchio racconto di Mary Elisabeth Braddon (Il freddo abbraccio), dove un seducente e cinico studente viene perseguitato dalla presenza dell’ex-amante suicida. A un certo punto, il giovane scapestrato si sente stringere dalle braccia della morta e constata che “non è solo spettrale quell’abbraccio, perché è palpabile al tocco…”.
Alice Krige (Ghost Story)
Da dove vengono questi pseudo-Zombie, queste creature ambigue e irrisolte, diafane ma capaci di ghermire, afferrare e, all’occasione, uccidere? Forse possiamo trovare una risposta, almeno abbozzata, in quei secoli lontani, che la nostra immaginazione confusa rappresenta sempre come inesauribili contenitori d’immagini macabre e stregonesche. Quei mille anni di storia, vita, guerra e cultura che siamo soliti chiamare “medioevo”.
“La fede nei vampiri si ricollega…”, scrive l’erudita Margot Rauch (Dracula e il mito dei vampiri, 2012), “…a diverse figure magiche (…), le streghe, i licantropi, gli zombi. Malgrado l’esistenza di punti di contatto, queste figure non vanno confuse con i vampiri. Nelle raffigurazioni della danza macabra, per esempio, i protagonisti sono scheletri che ballano e non morti-viventi”…Quest’ultima asserzione, per quanto lì per lì ci paia assolutamente sensata, non è in realtà altro che un falso ricordo. Chiunque abbia la pazienza di rivisitare la tradizione iconografica della Danse Macabre scoprirà infatti che gli “scheletri” in questione sono spesso corpi quasi completamente integri (I Morti di San Rocco, nei pressi di Como, o La Danse des Morts, in Alvernia, entrambi del XV secolo, giusto per ricordare un paio di reperti) o che altrettanto spesso, essi appaiono ricoperti di un sottile ma incontestabile strato di tessuti semi-marciti, come nelle celebri terracotte di Anton Sohn (XIX secolo)… I suddetti punti-di-contatto, a quanto pare, non sono innocui segnetti a matita su una mappa, ma faglie che connettono/delimitano placche tettoniche dell’immaginario. I protagonisti delle tetre ballate tardo-medievali non sono (non solo, per lo meno) semplici impalcature ossee, ma veri e propri “cadaveri deambulanti”. Walking (and Dancing) Dead.
Heidelberger Totentanz (autore sconosciuto, stampato da Heinrich Knoblochtzer in 1488)
Un passo indietro nel tempo, ed eccoci arrivati a destinazione.
L’Orda dei Morti è nata nella lunga Notte di George Romero, o seguendo l’Army of Darkness di Raimi? La risposta si direbbe negativa in entrambi i casi. Il Branco Apocalittico non ha preso forma sulla celluloide del cinema, ma nel midollo vivo delle credenze popolari. Siamo tra XI e XII secolo quando l’orecchio instancabile della Chiesa comincia a raccogliere racconti e testimonianze che parlano di torme, cortei, veri e propri eserciti di morti in marcia nelle campagne. L’Exercitus mortuorum dilaga in Francia come in Galles, in Spagna e Italia così come lungo il corso del Reno… Segue, del resto, il residuo di un’antica credenza germanica (a cui lo stesso Tacito nel suo De origine et situ germanorum aveva fatto cenno) venuta da noi sull’onda delle invasioni.
Se i defunti si manifestano talvolta come pellegrini ultramondani che hanno semplicemente perso la strada per il Paradiso, più di frequente assumono le sembianze ferine di demoniaci Cacciatori Selvaggi in cerca di viventi da rapire… La potente abbazia di Cluny ha già cercato (grossomodo tra il 1024 e il 1033) di fermare la loro avanzata, confinandola nel 2 di novembre, il giorno in cui ancora oggi la memoria di chi non c’è più viene onorata. Ma non è servito né servirà a nulla.
Hellequin conduce la masnada selvaggia
“Nella sua Storia ecclesiastica, scritta nel 1140” – ci informa lo storico Jean-Claude Schmitt – “Oderico Vitale riferisce con parecchi dettagli (…) l’apparizione dell’esercito dei morti chiamato per la prima volta familia Herlechini…”. La famiglia di Hellequin. Questo sinistro antenato del nostro Alecchino è in realtà una forma, una figura generica più che un personaggio (pare che il suo nome derivi dalla voce paleogermanica harjaleika, “membro della schiera”), ma non è mancato chi vi ha visto un improbabile Herle-King, un Re Herle dei Morti. In ogni caso, il sacerdote normanno Gualchelmo – che lo incontrò nel 1091 – lo descrisse come un gigante armato di mazza e accompagnato da una lunga corte di dannati infernali che cavalcavano nella selva, uomini, donne, nani deformi, demoni, pallidi e mori, perlopiù malvagi, ma, talvolta, solo in cerca di redenzione. “Il prete volle fermare uno dei cavalli, ma l’armatura gli bruciò la mano”, i morti erano solidi e reali dunque… E bisognava temerli. Hellequin era il vero signore dell’im¬maginario popolare, regnava nei luoghi solitari – che all’epoca erano la maggior parte del mondo – in attesa di sorprendere il viandante e portarlo con sé all’inferno. Non sappiamo se volesse anche mangiarlo, come fanno i nostri Zombie, ma è certo è che – lo scrisse il folklorista americano Rupert D. Jameson – anche “gli spettri sono sempre affamati”…
Fine prima puntata
Gianmaria Contro Si occupa (anche) di horror da tanto tempo. Nel 1998 – sigh! – firmò per Feltrinelli “Il mercato del terrore”, misfatto grazie a cui conquistò uno spazietto sull’Almanacco della Paura di Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore. Recidivo, ha continuato negli anni a scrivere per riviste come “HorrorMania” e “HorrorTime” (giusto a scanso di equivoci)… Oggi ha trovato nei Living Dead dei nuovi amici e ha voluto omaggiarli con “Zombie Walk”, un saggio pubblicato da Odoya. Qui – anche se è solo un visitatore di passaggio – si sente a casa, e ringrazia di cuore la redazione di Zombie Knowledge Base per l’ospitalità…
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