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6 giugno 2018

GUERRIGLIA ZOMBIE - Parte 2 (di Gianmaria Contro)

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Seconda parte della nuova rubrica di ZKB nata dalla mente di Gianmaria Contro, autore del libro/saggio Zombie Walk. Continuate a leggere per conoscere la "Guerriglia Zombie" che porta alla contaminazione dei nostri amati morti viventi, in posizione borderline tra il nostro mondo e quello del mito e della fantasia!


Se vi foste persi la prima parte di Guerriglia Zombie non avete che da CLICCARE QUI!

2 – I quasi defunti

Be’, sono morto e al tempo stesso immortale…”.
Questa affermazione – struggente, inquietante e in un certo senso poetica – non appartiene, come forse verrebbe spontaneo pensare, a qualche orrida Thing on the Doorstep lovecraftiana. A pronunciarla (lo riferisce il neuropsicologo Vilaynur S. Ramachandran) pare sia stato in verità un giovane di nome Ali, ospite dell’Istituto di Neurologia di Mount Road di Chennai, in India. Ali soffre di un deficit del sistema nervoso centrale denominato Sindrome di Cotard o, in omaggio alla nota inclinazione pulp degli anglosassoni, Walking Corpse Syndrome. L’ipotesi, se vi accontentate di una terminologia non troppo tecnica, è che, nel suo cervello, le vie che portano l’esperienza percettiva verso l’amigdala, sede delle emozioni, si siano interrotte e che, nel contempo, il “senso del sé” (che nasce dal dialogo tra neuroni specchio e lobi frontali) sia anch’esso danneggiato…

In una parola: non siete certi di esistere e per voi – proprio come accade al principe Amleto – questo mondo non è che “uno sterile promontorio”. Se non siete morti, poco ci manca.

La convinzione di essere cadaveri che camminano, vuoti involucri privi di sentimenti, indifferenti tanto alla bellezza quanto all’orrore di questo mondo, è qualcosa con cui prima o poi bisogna fare i conti e – piaccia o meno ai neuroscienziati – non è sempre riconducibile a un bruto problema di hardware cerebrale. Il Nulla appartiene alla nostra storia. Pensate a The Hollow Men. Con questo capolavoro poetico, nel 1925, il Premio Nobel Thomas Stearns Eliot ha di fatto dato i natali a dei veri e propri “Zombie esistenziali”, figure di eccezionale potenza allegorica che sanno ancor oggi sussurrare qualcosa di sinistro nell’orecchio di noi tutti. Aiutato dai suoi Uomini Vuoti, Eliot ha ritratto con feroce acume la fragilità del nostro esistere – come individui, ma soprattutto come civiltà – e il nostro equilibristico procedere sull’abisso, lungo una fune fatta d’auto¬inganni e menzogne…
…Wops! Scusate, mi son fatto prendere dall’entusiasmo.


In materia d’entusiasmo e d’illogiche allegrie, possiamo ricordare che la Morte non è sempre, perlomeno non per tutti, portatrice d’angoscia, desolazione e nichilistica depressione. Per i fanatici delle cosiddette NDE (Near Death Experience) si può anzi prenderla a nolo e quindi restituirla come fosse una canna da pesca, ma non senza essersi goduti un viaggio extracorporeo e un rapido sopralluogo nell’oltretomba. Così, senza impegno, giusto per farsi un’idea. Protagonista della lunga stagione dell’Aldilà-andata-e-ritorno, delle luci-in-fondo-al-tunnel nonché delle tante visioni celestiali (o infernali) è il celeberrimo saggio La vita oltre la vita (1975) del medico americano Raymond Moody, pubblicato proprio mentre la cultura cine-letteraria degli States è in preda a una moda del paranormale che rivaleggia con la febbre spiritista di fine Ottocento. Dopo aver venduto suppergiù venti milioni di copie, il buon Moody dichiarerà di essere stato strumentalizzato dai suoi avidi editori, che – in cerca di sensazionalismo – avrebbero rimosso i passaggi più prudenti e riflessivi della sua scientificissima opera… In ogni caso, questo non tratterrà Hollywood dal realizzare Brainstorm (Douglas Trumbull, 1983), pellicola sofferta, sfortunata ed economicamente disastrosa che però rimane lì come una specie di semi-dimenticato manifesto New Age, la prima che – almeno dai tempi dell’Heaven Can Wait di Ernst Lubitsch (1943) – abbia voluto consegnare alla platea una visione così candidamente waltdisneyana del dopo-morte…


Non possiamo indugiare troppo a lungo in queste lande (pena un eccessivo divagare), per cui usciamo dal limbo ultramondano salutando però, con l’occhio umido, l’imprescindibile cult Carnival of Souls di Herk Harvey (1962) che, con mezzi assai più risicati di quelli concessi a Trumbull, ha anticipato di una quarantina d’anni il finale (Spoiler! Spoiler!) del serial Lost… Scherzi a parte, quello che ci preme è aver almeno intravisto luoghi dell’immaginario dove le espressioni linguistiche “sono vivo” e “sono morto” hanno significati non del tutto chiari e distinti.

Carnival of Souls

Ora, però, dobbiamo prendere la Macchina del Tempo e fare un salto indietro, diciamo di… circa un secolo.

Mettiamo insieme qualche reperto, volete?

Nel 1840 Théophile Gautier pubblica Il piede della mummia; nel 1875 arriva La mano scorticata di Guy de Maupassant; nel 1890 il caustico Ambrose Bierce sforna Il dito medio del piede destro e due anni dopo Bram “Dracula” Stoker firma Capelli d’oro; infine – si fa per dire – nel 1902, William Wymark Jacobs scrive La zampa di scimmia… Parti e membra umane (o antropomorfe) abbondano nella narrativa fantastico-nera dell’Ottocento, e avanzano fin sulla porta di casa del secolo successivo. Il corpo umano, cadaverizzato e mummificato, è quindi sezionato in feticci ognuno dei quali assume specifici poteri magici. Un esercito di messaggeri delle tenebre che portano con sé maledizioni e ossessioni. A guardarli, verrebbe voglia di prendere alla lettera il suggerimento dell’anatomo-patologo Frank González-Crussì e inseguire, “la storia, i simbolismi, le meditazioni, le molte idee serie o fantastiche, o anche il romanzesco e il leggendario che attorniarono nel corso dei secoli i nostri organi interni”. Chi non ricorda il pale blue eye, with a film over it, l’occhio terribile e opaco del vecchio, che spinge all’omicidio il protagonista de Il cuore rivelatore? Chi può dimenticare i denti di Berenice? Quando ci si avventura nel macabro letterario del XIX secolo, l’incontro con il caro vecchio Edgar Poe è inevitabile, non possiamo spegnere le candeline senza il festeggiato. Di primo acchito, The Facts in the Case of M. Valdemar (La verità sul caso di Mr. Valdemar, 1845) sembra essere, tra I suoi racconti, quello che più si presta alla nostra impresa. Sospeso tra questo mondo e l’Altro grazie all’ipnosi mesmerica, il tubercolotico Valdemar è senza alcun dubbio un Morto Vivente coi fiocchi. Ma qui ci interessa per un altro motivo…

Valdemar è prima di tutto una porta socchiusa tra due universi. Lo spazio ambiguo in cui si muove è lo stesso in cui si muove Ali, lo stesso degli Hollow Men, quello in cui scivolano tutti i pezzi-feticci corporei, che sono morti ma conservano in sé un poco di malefica vitalità. “Dunque era questa la morte”, riflette tra sé e sé il protagonista de La mort d’Olivier Bécaille, di Émile Zola (1879), “questa strana sensazione di torpore, la carne greve d’immobilità, mentre l’intelligenza funzionava ancora?”. Lo stesso Zola ha già esplorato questo terreno in una delle sue opere capitali, quel mini-feuilletton macabro-criminale che è Thérèse Raquin (1867), dove l’assassinio e il ritorno spettrale dell’assassinato creano un godibile effetto Grand Guignol (rievocando il Delitto e castigo Dostoevskiano, ma senza la sua carica moralistica), e dove però è soprattutto la paralisi della vecchia zia di Thérèse a illustrare la Morte Vivente: la condizione un soggetto senziente che osserva o immagina gli atti, le gioie e le disperazioni altrui da una distanza risibile e insieme incolmabile, prigioniero del proprio corpo malfunzionante o di un carcere buio e senza uscita come la propria bara. Il paradosso angoscioso di chi possiede una verità cruciale, ma non può comunicarla a nessuno. L’Onuphrius di Gautier (1832) o l’Histoire de ma mort, di Anotonin Mulé (1862) – per non pescare a caso che due esempi – raccontano storie simili, la stessa che Poe infligge ai suoi claustrofobici lettori nel celebre The Premature Burial (La sepoltura prematura, 1844). È forse il riflesso di una paura reale, che ha funestato in particolar modo la seconda metà del XVIII secolo europeo, ma si è spinta fin nel cuore del XIX…

Torneremo a parlarne.

Fine seconda puntata

Gianmaria Contro Si occupa (anche) di horror da tanto tempo. Nel 1998 – sigh! – firmò per FeltrinelliIl mercato del terrore”, misfatto grazie a cui conquistò uno spazietto sull’Almanacco della Paura di Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore. Recidivo, ha continuato negli anni a scrivere per riviste come “HorrorMania” e “HorrorTime” (giusto a scanso di equivoci)… Oggi ha trovato nei Living Dead dei nuovi amici e ha voluto omaggiarli con “Zombie Walk”, un saggio pubblicato da Odoya. Qui – anche se è solo un visitatore di passaggio – si sente a casa, e ringrazia di cuore la redazione di Zombie Knowledge Base per l’ospitalità…

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SpleenLady

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Richard_Targaryen

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DarkSchneider

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Zombie Hunter

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Grimwolf

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jackson1966

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Alessia Gasparella

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ZomBitch!

name[ZomBitch!] image[https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYY9T4xMZe98rBdNfusZhjs3gw-TNMSQAHJoecFXJwrZZX7shHcbECfVXr7MeaSRkLlisIZBey_mgK2Tx2LXo3LzWs19se9fQ_PLOWCsbXBOoUBm2HqkF1cEFFoEpVPVavtVblz-Ip7KU/s151/dr.rockso.jpg] description[Colorito da Zombie, occhiaie da Zombie, si nutre di libri, fumetti, film-serie, musica, graphic e street-art senza sosta, come uno Zombie. Gli piacciono le robe creative, diverse, le robe da matti, il noir e lo humor nero. Lavora come copywriter e giornalista-editor, ma scrive su Zombie KB per infettare più vergini possibili con quest'implacabile Z-addiction...il suo motto? Fate piano con Zombie KB: there's no hope!]