Terza ed ultima parte di questa rubrica di ZKB nata dalla mente di Gianmaria Contro, autore del libro/saggio Zombie Walk. Continuate a leggere per conoscere la "Guerriglia Zombie" che porta alla contaminazione dei nostri amati morti viventi, in posizione borderline tra il nostro mondo e quello del mito e della fantasia!
Se vi foste persi la prima parte di Guerriglia Zombie non avete che da CLICCARE QUI, mentre per la seconda parte dovete CLICCARE QUI!
3 - Insepolti e malsepolti
A un certo punto – forse perché ci siamo distratti – ci ritroviamo sulle soglie del Gotico letterario, in uno di quei cimiteri di cartapesta che paiono sospesi su un latteo manto di nebbia al ghiaccio secco... Avete presente le scenografie del primo L’uomo lupo, quello del 1941? Del resto, dove altro avremmo potuto approdare, inseguendo i morti… Sulle soglie del Gotico, dicevamo, e quindi in quella settecentesca Terra di Nessuno, che ci pare oggi esitante tra criptoromanticismo ed Età dei Lumi, tra rivoluzioni sociali e fantasticherie vampiriche. Componimenti poetici celeberrimi come i Night Thoughs on Life, Death and Immortality di Edward Young (1742) o l’Elegy written in a Country Churchyard, di Thomas Gray (1750), vanno a ruba nell’Europa dell’epoca e di lì a pochissimo, il celeberrimo Castle of Otranto di Horace Walpole (1764) aprirà ufficialmente la stagione di caccia. Caccia all’immaginario nero, alle folli e tetre fantasie d’incesto, tortura, rapimento, omicidio. Un “nuovo” gusto della Morte va affermandosi nel sentimento dei lettori, così come nello sguardo degli estimatori d’arte. Nel 1799 Francisco Goya rende pubbliche – non senza scandalo – le tavole dei suoi Caprichos, una delle quali, ritraendo un cadavere che solleva la propria lapide, recita in didascalia che Ancora non se ne vogliono andare…
No, i morti non hanno mai voluto andarsene. E può accadere, forse proprio per questo, che i vivi vogliano accompagnarli al loro destino con un po’ troppa sollecitudine… Inchiodando il coperchio della bara anche su chi non è defunto al di là di ogni ragionevole dubbio. Almeno è di questo che il Settecento europeo sembra essersi convinto. “È paradossale – ci informa lo storico Michel Vovelle – veder nascere nel cuore stesso dei Lumi questo fantasma del sepolto vivo, testimoniato dalla letteratura, ma anche nei testamenti provenzali o parigini…”. E prosegue, “all’articolo ‘Morte’, l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert racconta tutta una serie di avventure di sepolti vivi, gli uni salvati in extremis, gli altri scoperti troppo tardi, la mano infilata sotto il coperchio della bara, e magari le braccia divorate da loro stessi nell’esasperazione della fame e del dolore”. L’immagine, nella quale sembra riecheggiare l’alone fantastico del Nachzehrer – il non-morto germanico che divora se stesso entro il sepolcro, è destinata a immensa popolarità. Al principio del secolo successivo – come a voler tirare le somme – l’anatomista Xavier Bichat, nel suo Recherches Physiologiques sur la vie et la mort (1801), dichiara che “la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte”, un’affermazione che sembra quasi parafrasaree ante litteram le conclusioni sulla pulsione di morte a cui Freud giungerà nel suo Al di là del principio di piacere (1920), teorizzando che ogni organismo vivente contenga in sé un’innata tensione al regresso verso la materia inorganica. La vita, direbbe Elton John, non è che una Candle in the Wind, una debole fiammella nella notte ventosa e gelida. Ancor prima di spegnersi può oscillare, vibrare come una nota che scende fino a diventare impercettibile…
I più snob potranno dire che è stato Baudelaire a rendere celebre Edgar Allan Poe in Europa, ma nessuno negherà che solo il regista Roger Corman gli abbia donato la vera celebrità negli States (e, a ben vedere, nel mondo intero). Il re dell’exploitation cinema confeziona Sepolto vivo nel 1962, “riportando in vita” – scusate il puerile giochetto di parole – il The Premature Burial dello scrittore bostoniano a poco più di cento anni dalla prima pubblicazione (1844), e lo aggiunge rapidamente alla propria galleria di successi. A dare a questo gustoso B-movie la sostanza del piccolo “classico” sono senza dubbio l’istrionica interpretazione di Ray Milland e la sceneggiatura di Charles Beaumont – uno degli autori più entusiasticamente ammirati da Stephen King – ma è soprattutto il suo soggetto a intrigare e terrorizzare il pubblico. La catalessi, ovvero la morte apparente, è stata la protagonista di un lungo percorso storico che, benché nella seconda metà del Novecento paia ormai esaurito, non ha ancora smesso di riecheggiare lontano, come una voce avvertita nel dormiveglia. Nel Settecento dei Lumi – dicevamo – il moltiplicarsi (presumibilmente immaginario) di improvvide inumazioni ha appena cominciato a prender forma, ed è curioso che ciò accada proprio mentre i “corpi cadaverici” hanno a loro volta preso a farsi invadenti, aggressivi, pericolosi. La fin troppo celebre-e-celebrata moda del vampirismo che in quegli anni conquista crescente spazio nella saggistica specializzata, è solo la parte di una curiosità-inquietudine “scientifica” più vasta, che incalza la morte per scoprirne i segreti proprio mentre – paradossalmente – ne fugge inorridita. A ridosso della Rivoluzione Francese, secondo quanto ci racconta il grande Philippe Ariès, “lo stato dei cimiteri divenne a un tratto un soggetto d’attualità che appassionava l’opinione pubblica”, e non a caso, “le carni putrefatte erano denunciate tra le cause delle epidemie che i “miasmi” trasportavano lungo i vicoli stretti e senz’aria”. La faccenda finì inevitabilmente col prendere una piega macabra e cruenta, da leggenda metropolitana. Si “raccontavano casi terrificanti di bambini del catechismo decimati dopo l’apertura di una cripta, di becchini folgorati per aver squarciato maldestramente un cadavere…”.
“Miss Eleanor Markham (‘una giovane donna rispettabile’) fu una di quelle persone per le quali il bizzarro terrore di vivere la propria sepoltura divenne realtà”, è quanto ci racconta Joanna Burke nel suo Paura. Una storia culturale (2007). Spirata ufficialmente l’8 luglio 1894, questa signorina di Syracuse (Stato di New York) ebbe infatti la ventura di risvegliarsi nella propria bara e, nel contempo, la fortuna di essere soccorsa dai becchini prima che fosse troppo tardi… Non è che uno – uno degli ultimi, a dire il vero – dei tantissimi aneddoti, alcuni documentati, ma per lo più fantasiosi, che si diffondono in tutto l’occidente nel corso di oltre un secolo. Difficile dire quando e perché sia iniziato, ma è certo che non si tratta di mera credulità popolare. Jacob Benignus Winslow, anatomista danese (e non olandese come sostiene la nostrana pagina di Wikipedia) pare sia stato uno dei primi a seminare il dubbio tra i colleghi. Con un trattato in latino scritto nel 1740 – che raggiungerà la fama pochi anni dopo grazie alla traduzione in francese di Jean-Jacques Bruhier d’Ablaincourt (Dissertation sur l’incertitude des signes de la mort), dà fuoco a una miccia che sarà ancora arzilla e scoppiettante nell’Ottocento. Se ne trovano tracce in trattati come The Danger of Premature Interment, di Joseph Taylor (1816) o, persino più tardi, nel Lebending begraben di Franz Hartmann (1896)… È una febbre che contagia tutti. Nobili e miserabili temono di risvegliarsi chiusi in una cassa e predispongono le più incredibili contromisure: bare “speciali”, obitori “temporanei”, grottesche procedure per rianimare i deceduti sospetti – dal peperoncino nel naso al ferro arroventato, da introdurre negli intimi orifizi del cadavere-o-forse-no… “I confini tra la vita e la morte cominciarono a diventare incerti, e l’idea che un vivo potesse avere l’aspetto di un morto era sempre più accettata dalla massa”, ha commentato il medico Jan Bondeson (nel suo A Cabinet of Medical Curiosities, 1997), con una perspicacia che ha qualcosa di profetico. Oggi quell’idea, nelle più varie declinazioni (soprattutto quella che vede un morto comportarsi come un vivo), è diventata parte integrante del nostro immaginario collettivo, ed è – potremmo quasi dire – il seme da cui sono a suo tempo sorti i nostri amici Zombie. Un seme tutto euroamericano, che solo grazie all’impetus coloniale della nostra civiltà, abbiamo voluto trasferire nei caraibi, all’ombra di un’arcana religione che chiamiamo voodoo…
The Premature Burial (Harry Clarke, 1919 - serie "E.A.Poe's Tales of Mystery and Imagination")
Se vi foste persi la prima parte di Guerriglia Zombie non avete che da CLICCARE QUI, mentre per la seconda parte dovete CLICCARE QUI!
3 - Insepolti e malsepolti
A un certo punto – forse perché ci siamo distratti – ci ritroviamo sulle soglie del Gotico letterario, in uno di quei cimiteri di cartapesta che paiono sospesi su un latteo manto di nebbia al ghiaccio secco... Avete presente le scenografie del primo L’uomo lupo, quello del 1941? Del resto, dove altro avremmo potuto approdare, inseguendo i morti… Sulle soglie del Gotico, dicevamo, e quindi in quella settecentesca Terra di Nessuno, che ci pare oggi esitante tra criptoromanticismo ed Età dei Lumi, tra rivoluzioni sociali e fantasticherie vampiriche. Componimenti poetici celeberrimi come i Night Thoughs on Life, Death and Immortality di Edward Young (1742) o l’Elegy written in a Country Churchyard, di Thomas Gray (1750), vanno a ruba nell’Europa dell’epoca e di lì a pochissimo, il celeberrimo Castle of Otranto di Horace Walpole (1764) aprirà ufficialmente la stagione di caccia. Caccia all’immaginario nero, alle folli e tetre fantasie d’incesto, tortura, rapimento, omicidio. Un “nuovo” gusto della Morte va affermandosi nel sentimento dei lettori, così come nello sguardo degli estimatori d’arte. Nel 1799 Francisco Goya rende pubbliche – non senza scandalo – le tavole dei suoi Caprichos, una delle quali, ritraendo un cadavere che solleva la propria lapide, recita in didascalia che Ancora non se ne vogliono andare…
Francisco Goya - Caprichos (59)
No, i morti non hanno mai voluto andarsene. E può accadere, forse proprio per questo, che i vivi vogliano accompagnarli al loro destino con un po’ troppa sollecitudine… Inchiodando il coperchio della bara anche su chi non è defunto al di là di ogni ragionevole dubbio. Almeno è di questo che il Settecento europeo sembra essersi convinto. “È paradossale – ci informa lo storico Michel Vovelle – veder nascere nel cuore stesso dei Lumi questo fantasma del sepolto vivo, testimoniato dalla letteratura, ma anche nei testamenti provenzali o parigini…”. E prosegue, “all’articolo ‘Morte’, l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert racconta tutta una serie di avventure di sepolti vivi, gli uni salvati in extremis, gli altri scoperti troppo tardi, la mano infilata sotto il coperchio della bara, e magari le braccia divorate da loro stessi nell’esasperazione della fame e del dolore”. L’immagine, nella quale sembra riecheggiare l’alone fantastico del Nachzehrer – il non-morto germanico che divora se stesso entro il sepolcro, è destinata a immensa popolarità. Al principio del secolo successivo – come a voler tirare le somme – l’anatomista Xavier Bichat, nel suo Recherches Physiologiques sur la vie et la mort (1801), dichiara che “la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte”, un’affermazione che sembra quasi parafrasaree ante litteram le conclusioni sulla pulsione di morte a cui Freud giungerà nel suo Al di là del principio di piacere (1920), teorizzando che ogni organismo vivente contenga in sé un’innata tensione al regresso verso la materia inorganica. La vita, direbbe Elton John, non è che una Candle in the Wind, una debole fiammella nella notte ventosa e gelida. Ancor prima di spegnersi può oscillare, vibrare come una nota che scende fino a diventare impercettibile…
L'Inhumation précipitée (Antoine Wiertz - 1854)
A tal proposito vi consigliamo il nostro approfondimento Dal passato tecniche anti-resurrezione
A tal proposito vi consigliamo il nostro approfondimento Dal passato tecniche anti-resurrezione
I più snob potranno dire che è stato Baudelaire a rendere celebre Edgar Allan Poe in Europa, ma nessuno negherà che solo il regista Roger Corman gli abbia donato la vera celebrità negli States (e, a ben vedere, nel mondo intero). Il re dell’exploitation cinema confeziona Sepolto vivo nel 1962, “riportando in vita” – scusate il puerile giochetto di parole – il The Premature Burial dello scrittore bostoniano a poco più di cento anni dalla prima pubblicazione (1844), e lo aggiunge rapidamente alla propria galleria di successi. A dare a questo gustoso B-movie la sostanza del piccolo “classico” sono senza dubbio l’istrionica interpretazione di Ray Milland e la sceneggiatura di Charles Beaumont – uno degli autori più entusiasticamente ammirati da Stephen King – ma è soprattutto il suo soggetto a intrigare e terrorizzare il pubblico. La catalessi, ovvero la morte apparente, è stata la protagonista di un lungo percorso storico che, benché nella seconda metà del Novecento paia ormai esaurito, non ha ancora smesso di riecheggiare lontano, come una voce avvertita nel dormiveglia. Nel Settecento dei Lumi – dicevamo – il moltiplicarsi (presumibilmente immaginario) di improvvide inumazioni ha appena cominciato a prender forma, ed è curioso che ciò accada proprio mentre i “corpi cadaverici” hanno a loro volta preso a farsi invadenti, aggressivi, pericolosi. La fin troppo celebre-e-celebrata moda del vampirismo che in quegli anni conquista crescente spazio nella saggistica specializzata, è solo la parte di una curiosità-inquietudine “scientifica” più vasta, che incalza la morte per scoprirne i segreti proprio mentre – paradossalmente – ne fugge inorridita. A ridosso della Rivoluzione Francese, secondo quanto ci racconta il grande Philippe Ariès, “lo stato dei cimiteri divenne a un tratto un soggetto d’attualità che appassionava l’opinione pubblica”, e non a caso, “le carni putrefatte erano denunciate tra le cause delle epidemie che i “miasmi” trasportavano lungo i vicoli stretti e senz’aria”. La faccenda finì inevitabilmente col prendere una piega macabra e cruenta, da leggenda metropolitana. Si “raccontavano casi terrificanti di bambini del catechismo decimati dopo l’apertura di una cripta, di becchini folgorati per aver squarciato maldestramente un cadavere…”.
“Miss Eleanor Markham (‘una giovane donna rispettabile’) fu una di quelle persone per le quali il bizzarro terrore di vivere la propria sepoltura divenne realtà”, è quanto ci racconta Joanna Burke nel suo Paura. Una storia culturale (2007). Spirata ufficialmente l’8 luglio 1894, questa signorina di Syracuse (Stato di New York) ebbe infatti la ventura di risvegliarsi nella propria bara e, nel contempo, la fortuna di essere soccorsa dai becchini prima che fosse troppo tardi… Non è che uno – uno degli ultimi, a dire il vero – dei tantissimi aneddoti, alcuni documentati, ma per lo più fantasiosi, che si diffondono in tutto l’occidente nel corso di oltre un secolo. Difficile dire quando e perché sia iniziato, ma è certo che non si tratta di mera credulità popolare. Jacob Benignus Winslow, anatomista danese (e non olandese come sostiene la nostrana pagina di Wikipedia) pare sia stato uno dei primi a seminare il dubbio tra i colleghi. Con un trattato in latino scritto nel 1740 – che raggiungerà la fama pochi anni dopo grazie alla traduzione in francese di Jean-Jacques Bruhier d’Ablaincourt (Dissertation sur l’incertitude des signes de la mort), dà fuoco a una miccia che sarà ancora arzilla e scoppiettante nell’Ottocento. Se ne trovano tracce in trattati come The Danger of Premature Interment, di Joseph Taylor (1816) o, persino più tardi, nel Lebending begraben di Franz Hartmann (1896)… È una febbre che contagia tutti. Nobili e miserabili temono di risvegliarsi chiusi in una cassa e predispongono le più incredibili contromisure: bare “speciali”, obitori “temporanei”, grottesche procedure per rianimare i deceduti sospetti – dal peperoncino nel naso al ferro arroventato, da introdurre negli intimi orifizi del cadavere-o-forse-no… “I confini tra la vita e la morte cominciarono a diventare incerti, e l’idea che un vivo potesse avere l’aspetto di un morto era sempre più accettata dalla massa”, ha commentato il medico Jan Bondeson (nel suo A Cabinet of Medical Curiosities, 1997), con una perspicacia che ha qualcosa di profetico. Oggi quell’idea, nelle più varie declinazioni (soprattutto quella che vede un morto comportarsi come un vivo), è diventata parte integrante del nostro immaginario collettivo, ed è – potremmo quasi dire – il seme da cui sono a suo tempo sorti i nostri amici Zombie. Un seme tutto euroamericano, che solo grazie all’impetus coloniale della nostra civiltà, abbiamo voluto trasferire nei caraibi, all’ombra di un’arcana religione che chiamiamo voodoo…
Fine
Gianmaria Contro Si occupa (anche) di horror da tanto tempo. Nel 1998 – sigh! – firmò per Feltrinelli “Il mercato del terrore”, misfatto grazie a cui conquistò uno spazietto sull’Almanacco della Paura di Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore. Recidivo, ha continuato negli anni a scrivere per riviste come “HorrorMania” e “HorrorTime” (giusto a scanso di equivoci)… Oggi ha trovato nei Living Dead dei nuovi amici e ha voluto omaggiarli con “Zombie Walk”, un saggio pubblicato da Odoya. Qui – anche se è solo un visitatore di passaggio – si sente a casa, e ringrazia di cuore la redazione di Zombie Knowledge Base per l’ospitalità…
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